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Manhattan

di Stefania Persano

Manhattan

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Quando arrivai al Manhattan per la prima volta, mi sembrò di entrare in una realtà urbana parallela, di scardinare il lucchetto che fa accedere a una città sepolta, polverosa come gli anfratti dietro le vecchie librerie, rumorosa come certe botteghe-scantinato dalla cui fenditura sul muro – una feritoia più che una finestra – trapelava lo scalpiccio dei passanti, zeppa di odori intensi (nicotina, aglio soffritto, luppolo), pressata di corpi e attraversata da sguardi di colori e umori diversi.

Una città che ha per capisaldi architettonici alte pareti sgargianti di murales,

per utensili piatti sbeccati e boccali formato vichingo, per piatti tipici pietanze varie ma accomunate dal denominatore comune dell’abbondanza, per figuranti camerieri e cameriere liberi dal bavaglio identificativo della divisa e delle buone maniere (ne ricordo uno che, mentre serviva ai tavoli, si abbandonava a grasse risate fumando spensieratamente una canna).

Scrigno di popolarità (e popolanità) nel cuore pulsante di Barriera, il Manhattan riflette e declina con originalità le prerogative del quartiere che lo ospita, sintetizzabili nella sua cifra orgogliosamente underground.

Underground, sotterraneo, perché è un quartiere che sottende – ma non soggiace – alle attività del centro, che lo nutre, lo rimpolpa e lo vitalizza, con l’estrazione storicamente proletaria – poi sotto-proletaria, oggi diversamente proletaria – dei suoi abitanti.

Diversità è la parola che meglio definisce il territorio racchiuso in questo perimetro a Nord del centro ma intimamente, moralmente a Sud dell’Impero: l’intersecazione tra lingue, razze e culture che da anni lo caratterizza ne è la pompa vitale, l’origine dello stigma negativo da una parte e il motore di inesausta, febbrile vitalità dall’altra.

Ed ecco che, fra le fabbriche dismesse nei tardi anni ‘80 e i banchi dei mercati rionali che vi sono germogliati attorno,

fra i cortili nascosti degli hammam, le macellerie halal e gli alimentari sui cui scaffali spiccano tajin colorati, si staglia questa istituzione anti-istituzionale, questo edificio che non si propone nessuna edificazione, né morale né di profitto e, in ultima sintesi, neanche intellettuale: un bar costruito sull’idea della condivisione di spazi, musica e cibo, selvaggia e un po’ scriteriata, non conforme a canoni di qualità, non piegata ad ansie di miglioramento dell’offerta per ampliare la clientela.

Al Manhattan si mangia come a casa, si ascolta la musica che si ascolterebbe – e strimpellerebbe – a casa, ci si siede un po’ stravaccati, si fuma tra un boccone e l’altro, si ride sguaiati fra commensali e con i camerieri che, spogli di divisa, capita di veder diventare a loro volta commensali.

Rimasto uguale a sé stesso negli anni, orgogliosamente fedele a un’idea di bivacco che rifiuta pose e propagande, il Manhattan restituisce conforto garantito al viandante in cerca di birra fresca, pastasciutta in porzioni non razionate, sonorità spigolose e murales scompigliati e irriverenti alle pareti.

A dispetto del Distretto di New York a cui il nome rende tributo, il Manhattan non è artificiosamente scintillante, non è ansioso di modernità, non blandisce la clientela con sofisticati restyling, non è chic e nemmeno accattivante in senso stretto, con i suoi intonaci sepolti da colori a spray e le sue panchine traballanti nel cortile interno.

C’è però qualcosa che accomuna il Manhattan a una certa idea di Manhattan,

un’idea sempre più raramente tradotta in pratica nelle grandi città (che siano megalopoli come NY o umili metropoli nostrane come Torino): l’idea di vitalità contagiosa, di fermento sbrigliato, di sperimentazione, di aggregazione trasversale, del fiorire di idee nuove in un ambiente non più nuovo da un pezzo.

Mi accorgo di aver usato nella stessa frase due parole, “contagiosa” e “aggregazione”, il cui solo suono oggi basta a far battere qualche dente: pazienza, il Manhattan non è mai stato conciliante verso i dettami della correttezza linguistica (o tantomeno politica), è nato stridente, grazie al Cielo lo è tuttora, e si spera che sempre lo sarà.

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